sabato 24 aprile 2010

Sul libero arbitrio

Siccome l’impegno visto come volontà di far cambiare qualcosa è l’idea ispiratrice di questo blog non credo di andare “off topic” se mi permetto (e vi propongo) di fare una riflessione che ha come argomento la libertà di volere, principio informatore di ogni sforzo umano e di ogni (buona) intenzione.

Vi pongo quella che Belohradsky avrebbe forse definito una questione di (s)fondo per la delicatezza delle sue implicazioni. Sostengo infatti che non esista il libero arbitrio, precondizione essenziale di ogni sforzo teso al cambiamento i cui risultati non siano già stabiliti (o prevedibili da un’intelligenza onnisciente) prima ancora del momento in cui nella mente del soggetto agente compaia l’idea che ne ispirerà le azioni.

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Partiamo dal concetto di libertà. Essa, per definizione, non può dipendere da alcuna causa. Più precisamente la libertà è la facoltà di cominciare da sé, senza cause precedenti, una serie di modificazioni (definizione kantiana). Se ci spostiamo da questo assunto di base stiamo parlando d’altro.

Secondo me le variabili che influenzano l’agire umano si possono dividere in due categorie: riconducibili al corpo e riconducibili ai condizionamenti esterni.

  • Tra le variabili riconducibili al corpo penso che la principale sia la conformazione del cervello, che è diversa da persona a persona ed influenza molto la vita di ciascuno di noi. Avere una parte più sviluppata di un’altra può significare essere più impulsivi, o più creativi, più intuitivi… Intendo dire che tra due individui a parità di ogni altra variabile, quello con un cervello più portato alla razionalità sarà più bravo a rispondere a quesiti logici dell’altro. - Per inciso aggiungo che questa è un’altra questione di (s)fondo, visto che se si scoprisse che una razza ha un cervello più dotato in alcuni campi (o semplicemente più dotato in assoluto) rispetto ad altre razze non si sa dove si potrebbe arrivare. – Comunque vi sono un’infinità di altre variabili somatiche che contano. A titolo di esempio nomino: ormoni; altezza; potenza degli impulsi sessuali; deformazioni e/o menomazioni, e l’elenco sarebbe ancora lunghissimo.
  • Tra le variabili riconducibili ai condizionamenti esterni ci sono sicuramente l’educazione ricevuta; le esperienze; le persone frequentate e moltissimi altri fattori di questo genere.

Il processo decisionale (la volontà) si basa su un mix di tutte queste variabili, molte delle quali completamente casuali con ciascuna che da persona a persona può essere più o meno importante.

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Nel momento della nascita non abbiamo una liberà volontà: le eventuali differenze di comportamento sono imputabili solamente alle variabili somatiche (cervello, ormoni etc.), penso che ciò sia incontestabile. Crescendo veniamo influenzati dall’ambiente e cominciamo a volere.

Coloro che credono nel libero arbitrio sosterranno che vi sia un processo che da completamente condizionati (la situazione alla nascita) porti ad essere liberi ed indipendenti. Questo processo deve necessariamente avere un input (altrimenti non si spiegherebbe la sua esistenza), e l’input deve essere o interno o esterno all’individuo. Se l’input è interno allora esso non potrà che dipendere dalle caratteristiche del cervello (o da altre variabili riconducibili al corpo), se è esterno sarà di per sé un condizionamento, e, come tale, sarà differente da individuo a individuo a seconda del contesto dal quale è prodotto.

Viene quindi meno, a mio avviso, la possibilità di determinare una volontà indipendente, visto che anche chi ne afferma l’esistenza si trova in imbarazzo nel dire da dove provenga l’input dell’ipotetico processo di transizione che da condizionati renderebbe indipendenti e liberi.

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A chi ancora dubbioso obiettasse “io sono libero perché posso fare ciò che voglio” Schopenhauer chiederebbe “ma puoi anche volere ciò che vuoi?”. E in caso di risposta affermativa la domanda successiva sarebbe “puoi anche volere ciò che vuoi volere?” e così avanti sempre più in alto, all’infinito, cercando invano di raggiungere un ipotetico volere indipendente da tutto.

Questa mia negazione senza appello di ogni libertà della volontà ha due implicazioni evidenti.

  1. La prima può essere riassunta dalla frase attribuita a Madame de Stael "tout comprendre c'est tout pardonner". Prendiamo l’esempio di un terrorista. Considerando le cose dal punto di vista di una mente onnisciente che conosca ogni caratteristica fisico/cerebrale e tutti i condizionamenti esterni del terrorista, pur restando innegabile che esso abbia fatto del male, sarebbe difficile non avere, stando dalla parte dell’intelligenza assoluta, un moto di compassione e di perdono nei confronti di questo individuo che non ha altra colpa se non quella di essere nato con un certo corpo ed essere stato esposto a determinati condizionamenti. Non intendo con ciò dire che non si debba condannarlo penalmente: è oggettivo che abbia fatto del male (non sto quindi sostenendo la tesi nichilista che bene e male sono concetti relativi). Dico solo che alla necessaria condanna penale di “giustizia terrena” (necessaria affinché l’esempio non venga seguito e non si faccia altro male) non mi sentirei di aggiungere un moto dell’animo di odio o di disprezzo.
  2. La seconda implicazione è complementare alla prima. Non posso cioè, sempre ipotizzando di stare dalla parte della mente onnisciente sostenere che chi agisce nel bene lo faccia di sua libera volontà. Le persone buone e/o brave sono semplicemente più fortunate di quelle cattive. Ai miei occhi il loro merito è ridotto nella misura in cui la colpa dei malfattori è attenuata e intesa solo in una sua particolare accezione avulsa dal concetto di libera volontà.

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A questo punto rimane ancora da dare un’importante spiegazione: perché continuiamo ad agire e non ci adagiamo sul divano fino a morire d’inedia?

La spiegazioni possibili secondo me sono due, riconducibili ancora alla dicotomia corpo/condizionamenti esterni:

  1. neanche questa scelta dipende da una nostra libera volontà. Un istinto atavico e animalesco di sopravvivenza della specie (che risiede nel corpo) ci impedisce di comportarci in modo autodistruttivo
  2. in realtà non abbiamo che una conoscenza distorta e parziale delle cose. Distorta perché la nostra educazione e i valori fondanti del mondo tendono a premiare in ogni contesto chi agisce (in modo confacentesi alle aspettative) inducendoci ad agire pavlovianamente. In questo caso sarebbero i condizionamenti esterni che influenzano la nostra capacità di vedere le cose come stanno. Inoltre la nostra visione è parziale perché non tutto è intelligibile per noi, visto che non vediamo l’infinito rapporto causale come potrebbe fare la mente onnisciente e, non avendo l’evidenza incontestabile di fronte agli occhi, possiamo fare al massimo delle congetture delle quali però non siamo convinti nel profondo (come starei facendo io in questo momento).

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Spero di aver esplicato abbastanza ordinatamente almeno il nocciolo della riflessione che ho portato avanti negli ultimi due mesi. In realtà ci sarebbero ancora molte connotazioni e corollari da aggiungere, ma li tralascio per motivi di sinteticità.

Vi prego di farmi sapere se non siete d’accordo con me. Se non lo farete non sarò in errore pensando che ogni vostro impegno finalizzato al miglioramento non è altro che una sorta di movimento inerziale di fattori da voi impossibili da controllare (perché mancano le premesse per farlo).

Enzo

domenica 18 aprile 2010

Una critica al liberalismo fossatiano

Salve.

Leggendo il libro di Fossati non ho potuto fare a meno di formulare alcune considerazioni. Ve le presento.

Mi sembra che uno dei punti focali del testo sia il contrasto tra l'etica della reciprocità liberale e la political correctness della corrente costruttivista. Fossati critica la seconda impostazione proprio perchè il politically correct manca dell'idea della reciprocità: gli stranieri non sono tenuti a rispettare la nostra cultura (perché deboli) ma noi siamo obbligati a rispettare la loro, non solo, ma non possiamo fare nulla quando i nostri connazionali sono perseguitati nei paesi esteri (vedi in particolare pag. 70, ma è una costante in tutte le prime centocinquanta pagine del libro).

Cerco di analizzare la questione: il liberalismo è una dottrina politica individualista, fin qui non ci piove. Le battaglie che sono state portate avanti dal liberalismo sono tutte a favore di diritti e libertà personali, dalla libertà di espressione a quella di commercio. I liberali disprezzano lo stato perché lo vedono come un entità disumana, spersonalizzante ma soprattutto incredibilmente potente: lo stato può soverchiare l'individuo e le sue libertà con i mezzi e la forza di milioni di uomini. Il liberalismo in linea generale se deve scegliere se stare dalla parte dello stato che deve costruire l'autostrada e il cittadino che rischia l'espropriazione della casa sceglie quest'ultimo.

Chi invece ha una concezione “forte” dello stato ritiene che per perseguire il bene pubblico la singolarità degli individui deve essere talvolta sacrificata per un fine superiore, e quindi qualcuno perderà la casa, qualcuno abiterà vicino a una centrale nucleare o a una discarica. Il liberalismo ha il grandissimo merito di aver sconfitto il potere dell'aristocrazia: i liberali volevano l'eguaglianza giuridica dei cittadini, e in particolare l'eliminazione dei privilegi nobiliari. Il principio di reciprocità qui si presenta così: io pago x quantità di tasse quindi anche tu paghi x quantità di tasse.

La critica più importante a questa dottrina la conosciamo tutti ed è la teoria marxiana, che in sostanza dice che le differenze di possesso economico (inevitabili nel sistema economico proprio del liberalismo che è il liberismo) rendono inutile l'eguaglianza giuridica e politica e non permettono un vero sviluppo dell'individuo.

I liberali ritenevano in sostanza che tutti gli uomini dovessero essere eguali dal punto di vista giuridico e politico, ma che la loro ricchezza “iniziale” (per nascita) o la ricchezza ottenuta nello svolgimento delle loro attività fossero svincolate e indipendenti dalla ricchezza di altri individui.

I social-democratici (i costruttivisti) cercano invece di colmare le varie differenze tra individui, siano esse di tipo economico (welfare state), fisico (rispetto e “correttezza politica” verso i disabili, gli anziani e i bambini), “intellettuale” (istruzione pubblica e obbligatoria), culturale (rispetto e correttezza politica verso le minoranze).

Insomma questi moderati di sinistra hanno paura del dominio, del potere di una componente della popolazione nei confronti di un'altra, ad esempio dei ricchi sui poveri, degli aitanti sui deboli, degli istruiti sugli ignoranti, degli adulti sui bambini e così via. E quindi tutelano, creano privilegi per i deboli, con norme giuridiche, regole di costume o convenzioni linguistiche, come chi chiama il netturbino “operatore ecologico” e viene tacciato di bizantinismo, falsità, di dire le cose in burocratese e non veramente come stanno.

Ciò nondimeno è questa l'impostazione generale dominante (almeno negli stati europei) ed è accolta con le dovute misure anche da liberali e conservatori (di certo le leggi a tutela dei minori non sono un'esclusiva della sinistra), e per questa ragione mi stupisce l'intransigenza di Fossati.

Per capire quanto questa concezione sia preminente basta dare un'occhiata alla Costituzione: il principio solidarista (art 2), il principio di uguaglianza sostanziale (e non formale), la presenza di imposte progressive (se chi ha 10 paga 1, chi ha 20 non paga 2 ma 3 o 4), il rispetto delle minoranze linguistiche e religiose sono tutti derivati di tale dottrina il cui scopo sembra essere quello di non volere che un gruppo, una componente della società prevalga sulle altre grazie a una qualche superiorità.


Quindi chi continua a rifarsi a questo famoso principio di reciprocità (che è chiamato anche “regola d'oro” per la sua internazionalità) prima di tutto non comprende gli sviluppi etico-politici degli ultimi due secoli e in secondo luogo non considera le profonde diversità presenti tra gli uomini. Quando al mondo saremo tutti eguali nel corpo e nello spirito, per capacità economica e di fronte alla legge (cioè mai) il principio di reciprocità sarà veramente la moralità assoluta. Fino ad allora è nostro compito a mio avviso cercare di colmare le enormi differenze, e in particolare le più nocive, al fine di offrire ad ogni individuo la possibilità e l'opportunità di vivere dignitosamente e in modo paritario nei confronti degli altri individui.

Con questo non voglio giustificare scelte discutibili come la creazione e l'imposizione di termini barocchi o la mancanza totale di reciprocità nei confronti dei cittadini stranieri, sostengo però che è giusto avvicinarsi all'esatta misura che ipoteticamente colmerebbe ogni differenza.

Il mio intervento non è una difesa a spada tratta del politically correct (argomento sul quale sono disinformato) ma una critica all'uso indiscriminato e non problematico del principio di reciprocità. Preferirei di gran lunga che si attaccasse la correttezza politica con motivazioni più pragmatiche e realiste, ad esempio mettendo in luce l'irrealizzabilità della dottrina solidarista per il fatto che in ogni società, anche nella più plurale delle democrazie, vi è sempre e comunque una componente dominante che imposta i valori e detta le norme e che senza questa condizione oltre alla libertà di culto e al diritto di assistenza dei disabili bisognerebbe garantire anche il diritto di non rispettare la legge.




Aggiungo una piccola postilla: il solidarismo e la “correttezza politica” di cui si parla rispecchiano sostanzialmente la volontà di dare a tutti gli individui eque opportunità, di dare a un povero le stesse opportunità di un Fossati, di dare a un ignorante le stesse opportunità di un Fossati, di dare a un tetraplegico le stesse opportunità di un Fossati.
Il Fossati invece, vuole la reciprocità, vuole tutti uguali e a tutti uguali diritti, ma questi diritti, queste “eguali libertà” sono quelle che ha conquistato la classe liberale e borghese, composta da uomini ricchi, colti, adulti e (generalmente) senza difetti fisici o malformazioni. Quindi tra questi diritti non ci sarebbe il diritto di un tetraplegico di poter usufruire della scala semovente, non ci sarebbe il diritto di un cieco che fa il segretario di avere strumenti ausiliari, un aiutante che lo accompagna sulle scale o dei privilegi di qualche tipo, dovrebbe essere trattato in modo “reciproco”, come tutti gli altri.
Mi rendo conto che gli esempi di diversità fisica sono i più emblematici e rischiano di banalizzare la questione in quanto “strappa lacrime”, ma il concetto per quel che mi riguarda è lo stesso per differenze di tipo economico, culturale e storico (non dovrebbe stupire che la political correctness americana cerca di “privilegiare” gli afro-americani dopo 3 secoli di schiavitù e 150 di inferiorità giuridicamente riconosciuta).
La conclusione che arrivo a trarre è che il solidarismo e la correttezza politica sono fenomeni etico-politici complessi (e, per quel che mi riguarda, di grande valore) che non possono essere ridotti banalmente alle sofisticherie linguistiche di qualche bigotto.

Cosa ne pensate?

Federico