Enzo ha proposto una discussione appassionante ed essendo interessato all'argomento provo a proseguire il dibattito. Anche se l'idea che mi sono fatto è moderatamente distante dalla sua, il mio intervento non vuole essere la negazione delle sue affermazioni, ma vuole stimolare invece una riflessione sullo stesso argomento in un'ottica diversa.
Ciò che ha scritto Enzo è ragionevole, io stesso mi sono posto la questione in termini pressoché identici. E ho cercato di trovare una scappatoia, un rimedio alla situazione che si prospettava. Vi propongo quello che ho scoperto.
Perché ci poniamo il problema del libero arbitrio? Sicuramente perché la libertà, la possibilità di scelta sono tra i nostri valori più vivi e profondi, tutti noi amiamo l'idea di poter controllare la nostra vita, il nostro futuro, di non essere burattini vittime degli avvenimenti.
Parlare di libertà dell'uomo come autodeterminazione assoluta (la “causa sui”) non ha a mio avviso molto senso, è pacifico che in una qualche misura noi tutti siamo determinati, dal luogo di nascita, dal nostro codice genetico, dalle scelte passate...Il punto sta nel capire in che misura noi “soffriamo” questa determinazione, se completamente (come sostiene Enzo) o solo parzialmente, avendo quindi spazio per la nostra libertà. Alcuni filosofi hanno infatti parlato di libertà finita, limitata, sotto condizione, altri hanno escluso la libertà di volere a favore della libertà di fare, cioè delimitata dal rango delle possibilità oggettive che sono sempre più o meno ristrette di numero.
Per quanto riguarda il determinismo la questione è complessa: la fisica contemporanea sembra negarlo (secondo il Principio di indeterminazione di Heisenberg) anche se nella nostra quotidianità tutto sembra avvenire secondo legami di causa-effetto; d'altronde la prospettiva opposta (l'indeterminismo) non è un argomento a favore del libero arbitrio: come diceva Hume, se tutto è determinato noi non siamo liberi, ma se tutto è indeterminato non lo siamo comunque, visto che le nostre azioni sarebbero vittima del caso e scollegate dunque dal nostro carattere, dalle nostre emozioni e dai nostri valori. Hume conclude sostenendo che il senso della libertà sfugge alla comprensione della ragione umana.
La soluzione più diffusa a questa situazione apparentemente senza vie di uscita è di tipo metafisico, e consiste nel considerare l'uomo come dotato di una mente, di uno spirito, di un intelletto che non appartiene al mondo della realtà ma appartiene invece a quello dell'idealità. In questo senso lo spirito è qualcosa di separato dal corpo, dal cervello, che sono composti invece di elementi chimico-fisici reali. In base alle varie concezioni filosofiche la mente e la realtà sono più o meno strettamente in contatto: si tratta però sostanzialmente del dualismo cartesiano mente-realtà, idea che, ammettiamolo, non convince molto.
Molto più convincenti sarebbero le soluzioni estreme: quella materialista (la mente non esiste, la nostra coscienza è data solamente da movimenti e interazioni di atomi che compongono le cellule cerebrali) e quella idealista (la realtà non esiste o è riducibile all'idealità, esiste solo il mondo metafisico dello spirito).
Sorprendentemente, però, il dualismo mente-realtà è ritornato in voga in ambito scientifico nel '900: Bohr, Heisenberg, Bohm, Schrodinger, hanno tutti assunto posizioni che sembrano conciliare il mondo del reale con quello dell'ideale.
Naturalmente non è possibile dimostrare l'esistenza di un'entità metafisica come l'intelletto, almeno non con i metodi scientifici tradizionali. Postulando l'esistenza della mente, non è difficile affermare che essa è libera: la mente potrebbe essere influenzata dal mondo esterno (dal codice genetico del corpo, dall'ambiente in cui si vive, da un danno fisico al cervello) ma avere comunque spazi per agire e scegliere “liberamente”. Insomma la discussione sul libero arbitrio deve per forza sfociare verso la filosofia della mente, dal momento che in ottica materialistica è molto difficile attribuire la libertà all'uomo, così come dare un senso alle cose e un fine alle cause.
Insomma l'idea che mi sono fatto è che il libero arbitrio sia un concetto limite la cui esistenza non si può negare o affermare con avventatezza, anche per il fatto che la questione si intreccia a tematiche scientifiche in continua evoluzione e ben lungi dall'aver raggiunto traguardi inconfutabili (basti pensare al fatto che attualmente ci sono dodici diverse interpretazioni della meccanica quantistica di cui tre si basano sul determinismo, sei sull'indeterminismo e due si dichiarano agnostiche a riguardo).
Volevo concludere facendo alcune considerazioni.
La prima richiama la celebre scommessa di Pascal ed è la seguente: credere nel libero arbitrio è più conveniente che non credervi. Infatti se il libero arbitrio esistesse, credere nella sua esistenza sarebbe sicuramente meglio che non credervi, perché saremmo più positivi, attivi e ottimisti. Se il libero arbitrio non esistesse, crederci o no non dipenderebbe da noi, perché sarebbe già determinata (o casuale) la nostra credenza o non credenza.
Se qualcuno ha dubbi sul fatto che il credere nel libero arbitrio (se esso esiste) possa migliorare la propria attitudine può dare un'occhiata a questo articolo http://psp.sagepub.com/cgi/content/abstract/35/2/260, ma le ricerche in questo campo sono abbastanza diffuse e mostrano risultati simili. Inoltre è notevole che la civiltà oggi più “avanzata” (passatemi la superficialità dell'affermazione) sia quella occidentale, che fa della libertà uno dei suoi valori cardinali (valore a cui sembra tenere molto anche il Dio cristiano).
L'altra considerazione, complementare alla prima, è quella che il non credere nel libero arbitrio rende disillusi e scoraggiati nei confronti della realtà. Percependo la rigida concatenazione di cause ed effetti nulla riesce più a stupire, a sbalordire, ogni nostra sensazione, ogni sentimento, ogni valore e ogni emozione sembra artefatto, innaturale, falso. Tutto viene sminuito, dai grandi traguardi raggiunti dall'umanità alla magnificenza della natura. Questa è la sensazione che ho provato quando mi è capitato di considerare il mondo in modo fortemente deterministico, quando ho badato più alle cause che ai fini, più al come che al perché (e noi, che siamo scienziati, siamo ben avvezzi a questo modo di ragionare).
Contro le declinazioni più esasperate di questo modo di esistere io propongo di dare più spazio alla creazione, al progetto, alla vitalità e alla meraviglia per le cose del mondo.
Federico
chenlili20160620
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