Primo, perché scrivere.
Ho sentito, ultimamente, l'insufficienza del “parlare e basta”. Quando parliamo, di continuo ritrattiamo, indietreggiamo, sdrammatizziamo, guardiamo il volto di chi ci sta davanti e, seppur minimamente, in base a quello ci correggiamo. Il che è meraviglioso, ma non mi basta quando vedo la voragine che si apre tra le parole che si sprecano e i fatti che, spesso, mancano.
Allora per me la scrittura sarà questo: una tappa intermedia tra l'ambiguità delle parole e l'univocità dei fatti. Un veicolo per passare dall'uno all'altro, dalla potenza all'atto se vogliamo, grazie a una componente importante della parola scritta che è la responsabilità: mentre parlo posso abbassare lo sguardo per sfuggire all'interlocutore, quando scrivo no. Ogni parola che riempie questo foglio bianco è in qualche modo un punto di non ritorno.
“La parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare la voce umana”, ha detto Marguerite Yourcenar. E quella voce non vorrei fosse sempre e solo un'emissione fonetica passibile di innumerevoli interpretazioni: vorrei, a volte, una Voce più coraggiosa e sicura di sé.
Che la scrittura sia responsabilità lo sa sicuramente anche il signor Celli.
Ogni tassello da lui citato, dal familismo alle veline, lo abbiamo davanti agli occhi e si incastra perfettamente nel quadro in una società italiana civilmente assopita e mediocre. Eppure, no: fossi in lui, io non direi mai a mio figlio ventenne di andar via. Perché così me ne laverei le mani, o meglio, contribuirei ad una sorta di auto-apologia generazionale del tipo “la mia generazione ha perso”...
Insomma, una generazione è fatta di individui. E lo stesso vale per un'élite intellettuale. E se un esponente della prima e contemporaneamente della seconda lancia un appello del genere, vuol dire che è figlio di quello stesso fatalismo tipicamente italiano a cui con ogni probabilità è avverso. Un appello fatalista in un paese fatalista desta clamore e emozione, ma non produce niente. Ci riduciamo a spettatori disillusi dei fallimenti dell'entità “Italia”, ma gli italiani li nominiamo mai? In questi giorni qualcuno mi ha scosso dal fatalismo, mi ha fatto capire quanto grande è la forza nell'azione di un individuo e spero ne parlerà anche qui. E non si tratta dell'individualismo noncurante citato da Celli, ma di qualcosa di quasi opposto: l'attribuire un valore inestimabile all'atto creativo del singolo.
L'azione non deve essere eclatante per smuovere qualcosa. Un'azione ispirata non “cambierà il mondo”. Lo so. Ma propongo una sorta di autoinganno: dovremmo crederci di più a certe favole, se queste sono la molla per il nostro agire, per evitare di “lasciarsi agire”. E per favola non intendo qualcosa di spudoratamente falso e consolatorio. Non so se chiamarlo impulso o Utopia, ma dev'essere un punto fermo e forte sul quale innestare ogni piccolo atto e pensiero.
Non dovremmo lasciarci tentare da una disillusione deresponsabilizzante. Perché se viene a mancarci questo slancio iniziale possiamo solo criticare, decostruire, demolire tutto pezzo per pezzo... Finché tra le mani non ci rimarrà più niente.
O meglio, possiamo fare come Sancho, essere realisti e accontentarci di un castello: e allora sì che la “fuga” all'estero sarà l'unica via.
Io questo sogno matto, questa miccia ideale la sento accendersi anche ora, mentre scrivo e forse qualcosa ad un micro-livello produco, mentre con un certo timore vi sottopongo le mie idee e con grande piacere mi arricchisco delle vostre.
Creatività e responsabilità, che è anche il senso di questo blog.
Ecco, ho chiuso il cerchio.
Veronica
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