Mi appasiona molto l'argomento di cui si sta discutendo, e cioè quello riguardo all'impegno politico contrapposto al non-impegno, al disinteresse, alla rilassatezza.
La tesi di Enzo è interessante: prendere atto dello stato di degrado che la nostra società sta attraversando, avvedersene con rammarico ma limitare il nostro impegno a preservare e a migliorare lo Stato delle cose in un ambito circoscritto, che è quello dove i nostri strumenti sono efficaci; preferire la comunità di amici e parenti alla società pubblica; fluire nel privato come molti di noi hanno sempre fatto.
D'altra parte le ingiustizie, le prepotenze, le scorrettezze di questo mondo ci spingono ad agire, ad intervenire, a tentate e ad andare oltre ai limiti dei nostri scarsi mezzi.
Preso atto dunque di questa contraddizione, il mio tentativo sarà quello di analizzare questa duplicità azione/inazione che penso caratterizzi in qualche modo ognuno di noi e che trascende il contesto dell'impegno politico.
Innanzitutto, qualcuno potrebbe obiettare che se qualcuno non combatte per un valore che sente suo, se non agisce concretamente ed immediatamente mettendosi in gioco, allora quel valore non è così importante per lui. Se io non vado a palazzo Chigi a protestare quando il lodo Alfano entra a far parte dell'ordinamento, vuol dire che (per esempio) i valori dell'isonomia e della costituzione non mi appartengono, o comunque non sono in me così forti e intensi. Questa linea di pensiero, tipica di una corrente dell'esistenzialismo, esclude i valori astratti proprio perchè i nostri valori sono tali solo nella misura in cui li rendiamo effettivi, fattuali, in parole povere, noi determiniamo ciò che siamo attraverso le azioni, non i pensieri.
Questa lettura è a mio avviso molto interessante, ma la mia esperienza mi fa pensare che in noi esistano dei valori profondamente radicati e presenti, che non riusciamo però a concretizzare pienamente per via delle poliedriche contingenze della vita. Penso alla gente che non può andare a Roma al no-B day per le più disparate ragioni.
Ho letto l'Amleto recentemente e il monologo dell' "Essere o non essere - questo è il problema" offre uno spunto di riflessione in merito a questo tema: il protagonista giunge infatti alla conclusione che il motivo principale per cui l'uomo tradisce i suoi valori ed ideali (per Amleto questi sono grossomodo la Verità, la famiglia e l'onore) e rinuncia a combattere e ad agire, è l'abuso del raziocinio, della riflessione, della lungimiranza che frena gli impulsi del cuore e palesa la possibilità del fallimento e in ultima istanza della morte. Paura di non essere più, di andare contro qualcosa di sconosciuto e pertanto terrificante. E quindi "sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua fortuna".
Vorrei proseguire il mio intervento evolvendo la discussione tra impegno (politico) e disinteresse: ho già detto della visione antipodica azione<--->preservazione che Shakespeare rende viva nel monologo del principe di Danimarca, ecco ora vorrei presentarne un'altra, simile ma non uguale e sottoporla al vostro giudizio, e cioè la dicotomia azione<--->pensiero, intendendo per azione il nostro agire nel mondo e per pensiero il nostro pensare il mondo.
L'individuo che pensa di più agisce forse di meno? Di primo acchito risponderei di no, ma riflettendo più a lungo, giungo alla conclusione che l'uomo "di pensiero", riuscendo a cogliere la causa intima di ogni fenomeno, non agisce mai perchè conosce le cause e i motivi che determinano ogni evento e, prendendo atto della necessità che regola il mondo, diventa etereo fino a scomparire, confondendosi nel mare necessario dell'universo. Egli in pratica è Dio, o Demone di Laplace, come qualcuno lo chiama. E' ovviamente un'ipotesi limite perchè ogni soggetto agisce esistendo e vivendo nel mondo, al di là del fatto che la scienza contemporanea sembra negare la possibilità di conoscere la "concatenazione di verità" per via dell'intrinseca casualità che regola tutti gli eventi dell'universo.
Ad ogni modo Spinoza intendeva così la saggezza quando diceva:
"Infatti l’ignorante, a parte il fatto che è sballottato in molti modi da cause esterne e non raggiunge mai una vera soddisfazione dell’animo, vive, inoltre, quasi inconsapevole di sé, di Dio e delle cose; e appena cessa di patire cessa anche di esistere. Al contrario il saggio, in quanto è considerato tale, difficilmente è turbato nell’animo, anzi, consapevole di sé, di Dio e delle cose, per una certa eterna necessità, non cessa mai di essere, e possiede sempre la vera serenità dell’animo."
Al contrario, "l'uomo d'azione", non comprendendo minimamente il mondo, è fatto di pura azione e volontà di potenza, esiste solo per se stesso, non vuole sottostare a nessun potere e volontà esterna, perchè non ne vede la necessità. All'opposto del determinista che scruta tutto e trova sempre cause e motivi, l'uomo d'azione è un inguaribile possibilista. Egli è la componente creatrice della nostra ragione, quella che ci spinge a combattere per un valore fino a mettere in gioco noi stessi e ad ergerci contro il mondo e i suoi soprusi. L'uomo totalmente agente non può esistere perchè non sa esistere, non conoscendo il dolore causato dal fuoco, il soffocamento provocato dall'acqua, nè la ferita mortale cagionata da una caduta. Esso non potrebbe vivere, rifiutandosi persino di respirare per non sottostare al potere dell'aria. Noi abbiamo imparato queste cose, il dolore del fuoco, del mancato respiro, le sculacciate della mamma e conosciamo, dunque ci adattiamo al mondo, facciamo il famoso compromesso con il potere e la volontà esterna, umana o naturale che sia, iniziamo quel percorso verso l'esistenza, che non a caso deriva da ex-sistentia, ovverosia "stare da", "avere l'essere da" cioè essere calati in un contesto esterno da noi.
Quale il comportamento migliore dunque? Forse, secondo la lezione dei classici, quello di seguire la "giusta misura" che ci suggerisce la nostra ragione?
Pensare e comprendere il mondo ma allo stesso tempo agire e far valere lo propria volontà sul mondo stesso? Questo approccio non ha però la grandezza dei due estremi e mi dà l'impressione di essere una soluzione di ripiego, che pure è quella che penso noi tutti adottiamo, chi più verso un estremo, chi più verso l'altro.
La paura che mi perseguita è quella di diventare una persona "priva di totalità", che mi fa pensare continuamente alla figura del piccolo borghese, la personalità tanto disprezzata da tutti i grandi intellettuali della contemporaneità. Una creatura che manca di partigianeria, che non combatte con i denti e le unghie, ma che ciònonostante vuole ma non troppo, manca della grandezza e dello slancio tragico dei martiri, dei re, dei grandi condottieri. Borghesi, tutti medio progressisti, come il megadirettore galattico fantoziano, che vedono le ingiustizie ma non le combattono con l'abnegazione degli eroi o dei partigiani ma prendono la strada meno rischiosa del riformismo, dell'attesa, della discussione democratica, della prudenza..
Quanto ritrovo la mia famiglia, gli ambienti dove ho sempre vissuto, me stesso! Forse la lezione dei classici è corretta, ma sicuramente pecca di fascino.
Il mio sproloquio è finito, avevo davvero bisogno di elaborare in forma scritta e vagamente organica quello che mi passava per la testa da un po' di tempo, e quindi mi sento in dovere di ringraziare in modo particolare coloro che hanno dato vita a questo blog.
Invito ora gli altri partecipanti a questo progetto di continuare la discussione e a sottoporre al tribunale della ragione quanto ho scritto, in modo da aggiungere un tassello al percorso dialettico che stiamo facendo insieme. E mi rivolgo in particolare a chi non ha ancora scritto! Tanti saluti.
Federico.
lunedì 28 dicembre 2009
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Una riflessione a margine: siamo sicuri che gli eroi esistano (o siano esistiti) davvero e che non siano soltanto figure immaginarie che si vengono a creare a partire da persone reali (non prive di meriti) che non possiedono però nel grado che sarebbe lecito aspettarsi le caratteristiche che si tende ad attribuire loro?
RispondiEliminaIn altre parole: se per un prodigio misterioso potessi assistere alle azioni e ai discorsi che hanno fatto di Robin Hood e di Che Guevara degli eroi rischierei di essere deluso?
Non è possibile che l’eroismo nel senso attribuitole da Federico sia una fantasia rassicurante, un contrappeso immaginario al nostro agire razionale e, a volte, meschino?
Come tante altre volte ho fatto, anche ora agisco come i discepoli di Socrate, e spero di essere smentito.
E’ veramente uno spunto interessante. Ti ringrazio di avercelo proposto.
RispondiEliminaMi permetto di rigirare totalmente il problema e di eliminare bruscamente, forse commettendo degli errori, la contrapposizione azione-inazione. D’altra parte per esporvi il mio pensiero chiaramente ho bisogno di partire con la mia tesi che non accetta questa duplicità.
Dal mio punto di vista nessuno può fare un’inazione, proprio perché tutti necessariamente per essere definiti qualitativamente devono attivare un rapporto con la comunità sociale fondato su azioni del singolo e risposta della comunità. Poniamo il caso che vi sia un “uomo di pensiero, un saggio spinoziano. Egli è saggio in sé ma se non avesse un contatto con la comunità sociale, non sarebbe conosciuto, di fatto non esisterebbe, perché non conterebbe nulla. L’uomo di pensiero non è quindi un uomo di non-azione ma di poche azioni, perchè di fatto preferisce circoscrivere il suo “raggio d’azione” in un ambiente molto piccolo, quindi un gruppo da lui stesso scelto; è importante sottolineare questa azione, scegliere. Potremmo dire che, anche solamente per questa scelta, egli ha fatto un’azione importantissima. Anche un essere ENZIANO fa le sue azioni nel momento in cui comunica agli altri i valori e le convinzioni che persegue con la meditazione e con i pensieri. E questo può influire sugli altri, può modificare idee proprio perché se non lo facesse non sarebbe definito tale.
Il problema non è l’azione o l’inazione. Penso che gli estremi di cui parla Fede,cioè le totalità delle quali l’uomo borghese sarebbe privo, siano soltanto dei miti creati apposta. Peccano appunto di fascino.
Conclusioni mie:
Ognuno si sceglierebbe il suo campo: chi grande, chi piccolo, chi aspira agli amici, chi alla massa nella sua totalità.
Ognuno sceglierebbe le modalità di azione preferite, in linea con le proprie capacità, con le proprie forze, il proprio coraggio e, soprattutto, con le proprie conoscenze.
Il problema di cui discutiamo non deve riguardare queste due totalità (pensiero-azione, lotta-difesa, saggezza-ingenuità), ma la scelta dei destinatari, verso i quali pensiamo che le nostre azioni debbano essere rivolte per realizzare noi stessi e le nostre idee.
Lollo
Questo bell'intervento dà molto su cui arrovellarsi.
RispondiEliminaHo ordinato i concetti dell'intervento di Fede in coppie antitetiche, forse in modo grossolano, ma più che altro per esigenze di comprensione.
Pensiero/Azione
Determinismo/possibilismo
Necessità/caso
Preservazione/Dissoluzione
Per semplicità, i primi termini di ogni coppia possono essere ricondotti al saggio di Spinoza, i secondi invece all'”uomo d'azione”.
Credo che una sintesi tra questi poli sia rappresentata dall'oltreuomo di Nietzsche: sa che ogni istante è destinato a ripetersi, ma non interpreta questo eterno ritorno in senso determinista e fatalistico. Anche se tutto è deciso e necessario, lui vuole ogni attimo e dice: “così io volli che fu, così io voglio che sia, così io vorrò che sia”. Dunque muove dal presente, non affidato al destino o al caso, ma alla decisione, alla volontà: crea, vive ogni istante in modo da poter desiderare di riviverlo.
In altri termini, credo che la chiave sia proprio il “volere l'attimo”. Il mondo di possibilità che ognuno ha a disposizione è limitato da pareti oggettive e insuperabili, ma al loro interno tutto è permesso all'individuo. Il che rappresenta forse una via di mezzo tra le due visioni, determinista e possibilista, su cui da sempre ci si dibatte; e sì, manca della grandezza degli estremi. Ma forse il fascino degli estremi sta nel loro essere tipi “puri”, mete ideali verso cui tendere, tuttavia di fatto impossibili da incarnare.
Più che fare da contrappeso al nostro agire meschino, per me gli eroi, gli estremi, sono dei poli magnetici che ci esortano a sbilanciarci un po', a volere.
Concludo provando a rovesciare le coppie dell'inizio: e se il non-agire si legasse non al determinismo, ma al possibilismo esasperato, al caos più totale? Mi spiego: le conseguenze dell'inazione possono essere ben più incognite e imprevedibili di quelle dell'azione, perchè spesso sarà qualcun altro a scegliere per noi. Scusate la retorica, ma è la Storia (recente) a mostrarlo. E non sempre è facile vedere il confine tra l'inazione, anche la più ponderata, e l'indifferenza.
C'è chi ha detto già molto al riguardo: http://www.antoniogramsci.com/cittafutura.htm#indifferenti
Andate sull'indice e cliccate “indifferenti”.
Veronica